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Personaggi e interpreti



L’Uomo:

Enzo Rapisarda


L’Avventore:
Domenico Veraldi

Staff 

​

Scenografie e Costumi:
Laboratorio N.C.T. Verona


Direzione luci e audio:
Khristopher Ramos Villegas

 

Fotografie:

Michele Albrigo


Regia:

Enzo Rapisarda


Produzione e messa in scena:
Nuova Compagnia Teatrale

Rappresenta, nella drammaturgia pirandelliana, uno dei momenti più alti.
Innanzitutto, per la pregnanza di significato che emerge da una vicenda di assoluta semplicità e limpidezza. Tale vicenda si dipana attraverso il breve dialogo di due soli personaggi, l’Uomo dal fiore in bocca appunto, e il distinto signore, l’Avventore, che il primo incontra.
Incalzato dalle domande dell’Uomo, l’Avventore confessa il proprio fastidio nei confronti della moglie e della figlia che lo caricano di incombenze e lo trascinano nella pratica noiosa delle spese e nella disbriga quotidiana di affari poco importanti.
L’Uomo risponde allora con una minuziosa descrizione di quegli stessi avvenimenti in cui è fastidiosamente coinvolto l’Avventore e rivelando a costui a poco a poco tutta la necessaria importanza che quelle piccole cose tornano a possedere per chi, come l’Uomo, è avviato in breve alla tragica conclusione della propria vita e ne è consapevole.
Quel “fiore in bocca”, infatti, significa morte, dolorosa fine dell’esistenza.

Ciò che contraddistingue l’atto unico è, ancor più della contrapposizione “vita – morte”, la contrastante dinamica dialettica tra “vivere e sopravvivere”; meglio, tra un vivere apparente (l’Avventore) che è, in realtà, un sopravvivere agli eventi, un quotidiano “campare”, un “tirare avanti” fra minimi fastidi ed irritante quotidianità, e un apparente sopravvivere (l’Uomo), che è in realtà un vivere (o un tentativo di vivere) pienamente, disperatamente aggrappandosi proprio a quei fastidi, a quella quotidianità, altrove ritenuta irritante, ma che tale non viene considerata da chi sa coscientemente di perderla giorno dopo giorno.
Dunque, la morte e la consapevolezza della fine imminente illuminano il valore della vita, riscoperta nei dettagli senza senso, nelle pieghe degli affetti familiari, nel fluire incessante dei giorni e delle abitudini che ad essi si accompagnano e a cui, solitamente, non attribuiamo “importanza”.
E’ significativo che la più torturante e torturata pièce di Pirandello, la più tragica, non si svolga proprio nella “stanza della tortura”, come ebbe a definirla Giovanni Macchia, le quattro pareti domestiche in cui si consumano altre varie vicende pirandelliane più o meno drammatiche, e che, invece, essa si sviluppi “all’aperto”, alla luce crepuscolare: forse perché lo scontro, il conflitto vero tra vita e morte, tra realtà e apparenza, non può che generarsi in un “aperto” infinito, senza confini, senza tempo.

LA PATENTE

di Luigi Pirandello

Atto unico

regia di ENZO RAPISARDA

Personaggi e interpreti



Giudice D’Andrea:
Alberto Latta


Marranca (l’usciere):
Michele Bottaro


Primo Giudice:
Domenico Veraldi


Secondo Giudice:
Mario Cuccaro

Giuseppe Fiore


Rosinella:
Anna Rapisarda
Ilaria Totaro


Rosario Chiàrchiaro:
Enzo Rapisarda

Staff 

​
Foto di scena:
Michele Albrigo

​

Coreografie:

Roberta Lorenzoni


Scenografia e costumi:
Laboratorio N.C.T.

​

Direzione luci e suono:

Khristopher Ramos Villegas


Regia:
Enzo Rapisarda


Produzione e messa in scena:
Nuova Compagnia Teatrale

Tratta dalla novella omonima del 1911, la commedia fu rappresentata per la prima volta in dialetto siciliano nel 1919 a Roma con la regia di Nino Martoglio e l’interpretazione di Angelo Musco. Fu tradotta anche da in dialetto genovese (da Gilberto Govi), in napoletano e in veneziano. E’ stata ripresa in un film a sketch da titolo “Questa è la vita” nel 1953 per la regia di Luigi Zampa con l’interpretazione di Totò.

Il dramma e il grottesco della vicenda si risolvono teatralmente in un accorato e vivo monologo del protagonista cui fa da contrappunto, come nel teatro classico, il “coro” dei giudici.
Come sempre l’autore fissa l’attenzione del pubblico su un nucleo centrale: in questo caso è la storia sfortunata di Rosario Chiàrchiaro, un disgraziato padre di famiglia cui è stato misteriosamente attribuito il potere di jettatore. Bollato dalla società col marchio di menagramo, a causa di questa nomea è costretto insieme con la moglie e le due figliole a vivere in isolamento perdendo il posto di lavoro e riducendosi alla fame. Chiàrchiaro non si piega e invece di negare l’infame calunnia fa ogni sforzo per convalidarla convincendo il giudice D’Andrea che non solo la jella esiste, ma che lui è uno jettatore autentico e vuole la patente a riconoscimento di questa sua particolare professione. Egli infatti non può vivere se non codificando la sua fama di jettatore, facendosi riconoscere ufficialmente come possessore di un potere funesto e invincibile e ottenere così la sua patente. Solo in tal modo egli potrà guadagnarsi da vivere perché tutti, per tenerlo lontano, saranno costretti a pagargli una tassa.

Quando Chiàrchiaro spiega le ragioni della sua decisione, dettata dalla disperazione,egli non è più una maschera grottesca, ma un uomo come gli altri, per il quale nessuno ha avuto pietà, perché l’ignoranza e la superstizione sono più forti della pietà. E qui scatta l’umorismo pirandelliano, il travestimento da jettatore da ridicolo diventa umoristico, perché crea una forte compassione nei confronti del mascheramento grottesco per necessità. Lo spettatore perde il sorriso fatto di incredula ilarità e comincia a riflettere e a capire le ragioni di Chiàrchiaro che non crede alla superstizione ma è stato costretto a prendere atto della sua situazione disperata e capisce che l’unica possibilità che gli resta è “sfidare il ridicolo” e pretendere l’ufficialità della sua jella per ottenere i soldi necessari a sopravvivere.

Si tratta di un’opera di grande attualità in questa nostra società fatta di “apparire” e non di “essere”, che denuncia dei giochi di rapporti e preconcetti in cui l’individuo è inevitabilmente coinvolta. Come Rosario Chiàrchiaro ciascuno ha la sua maschera, un ruolo da giocare, maschera e ruolo che spesso vengono plasmati addosso dagli altri e a cui nessuno può sottrarsi perché il pregiudizio della massa finisce per avere sempre il sopravvento.

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